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Giorgio Celiberti è un artista trentacinquenne che ha già vent’anni di pittura alle spalle. E’ un giovane quindi maturo, entrato nella fase in cui rotture, spericolatezze pittoriche sono già sottoposte al vaglio critico della esperienza, della meditazione e del controllo. Età felice e tormentosa insieme, sospesa tra eccessi e ragione. Celiberti decise di fare il pittore; era la sua forte vocazione. Avrebbe potuto fare l’atleta, l’industriale o persino il pilota spaziale, perché è una natura ricca e dotata, ma tra i tanti modi in cui esercitare e dilatare la sua personalità, la strada pittorica gli apparve la più completa e convinta. Ne accettò i rischi. Lasciò l’operoso benessere della sua Udine, la casa paterna piena di possibilità e di onesto dinamismo ed entrò con prorompente entusiasmo nel mondo, spesso pallido e malaticcio, degli artisti, tra gente difficile e amara, esaltata e scontrosa insieme. Era un innesto difficile, direi mortale, per una natura che non fosse vigorosa e sana coma la sua. Innesto disorientante per la crisi dell’arte, la confusione degli indirizzi e delle scuole, la carenza di maestri attuali, lo smarrimento del pubblico, il pessimismo delle gallerie. Tutto era fosco. Per una natura dignitosa ed orgogliosa la prova era suprema. E Celiberti capì che bisognava resistere e lavorare. Girò le città italiane, viaggiò in molti paesi del mondo, amò la pittura e la vita. Fece della pittura lo specchio sempre fedele e sincero del mondo che scopriva. Poche volte ho visto un caso così intenso di duplice e concomitante esperienza tra interiore ed esteriore. Gli stimoli esterni (e Giorgio avidamente se ne riempiva, nulla scartando) si convertivano in esplorazione interiore, questa diveniva carica per nuove dilatazioni, cosicchè egli fu, ad un tempo, solitario e socievolissimo, ribelle e mansueto, timido e sicuro. Lavorò dal vero, ovunque si trovasse e lavorò per mesi, chiuso nel suo studio, facendo risuscitare immagini e scorci che aveva impresso nel suo profondo; dipinse le cose, i volti, le città, i paesaggi, ma questo non gli bastava: doveva dipingere i fantasmi, i pensieri della sua memoria interna, quelle emersioni dal fondo della coscienza ove sono impresse le esperienza ancestrali dei millenni e quelle saettanti della vita attuale. L’astrattismo è un modo di dipingere i pensieri, un modo di sognare, smaterializzarsi, per accompagnare la vorticosa onda mentale nei suoi viaggi verso l’ignoto infinito. E’ una pittura veloce, misterica, è tentativo folle di visualizzare l’invisibile, è perdita della coscienza temporale nella brama di afferrare e risillibare il moto delle eterne cose. Ho visto Celiberti spesso schiantato da queste esplorazioni ascetiche, eppure da ogni crisi usciva qualcosa di gentile e forte insieme. Una luce di comprensione affiorava dai mondi incomprensibili e dal caos primigenio. Come a ripercorrere la stessa genesi creativa, ritornava ad affiorare la vita sensibile, prima incerta, poi sicura ma di una sicurezza che conservava la magìa dell’arcano embrionale. Scriveva Goethe: « L’amore della verità si mostra in questo, che dappertutto si sa trovare e apprezzare il buono. L’uomo deve persistere nella sua fede che l’incomprensibile un giorno possa essere compreso, altrimenti rinuncerebbe ad ogni indagine ».
Questa fede anima Giorgio Celiberti. E’ certamente uno degli uomoni più attivi e pazienti che io conosca. A qualche superficiale può apparire ambizioso e febbricitante di successo, con le sue mostre serrate (non ha fatto n tempo dal rientrare dalla mostra di New York che subito impacchettò altri quadri per Torino e appena chiusa Torino già in moto per altre città) ma Celiberti, per chi lo conosce a fondo, accetta il successo col senso sereno e doloroso del dovere. Lo assimila subito, se ne immalinconisce anche, e ricomincia a cercare e sono nuove serie di quadri, nuove scoperte, nuovi cicli. Aumenta l’impegno a misura che sfonda. Sa che non deve fermarsi. Sa che dalla ricca dotazione interiore il suo pennello, come una escavatrice, può trarre nuovi significati. Talvolta è contento di sé, ma il giorno dopo lo trovo rabbuiato e pensoso. Demolito un limite ne trova un altro. E riparte col suo spirito atletico e monastico insieme. Divora vita per nutrire la sua pittura da cui si fa divorare, ma in questo abbagliante e pur preciso gioco dinamico di vuoti e di pieni, di esaltazioni ed angosce, di successi e di malinconie egli, giorno per giorno, mette a punto la sua dimensione e cresce. Ed a lui può ben applicarsi questo concetto (è ancora del grande Goethe) nei colloqui con Johann Peter Eckermann: « La pianta procede di nodo in nodo e termina col fiore e col seme… così un popolo produce i suoi eroi che, pari a semidei, vegliano, sulla sommità, alla difesa e alla salute di tutti… L’uomo deve sapersi innalzare all’intelletto più alto per venire a contatto con la divinità, che si manifesta nei fenomeni originari, tanto fisici che morali e dietro ai quali essa si cela: ed essi procedono da lei ».
Giorgio Celiberti è teso alla ricerca di questo senso universale pittorico da tradurre nella realtà pratica e unitaria dei nostri giorni. Questo è pur sempre il significato della cultura: tradurre l’eternità delle origini nella palpitante vita del nostro tempo. Dell’opera pittorica di Giorgio Celiberti, hanno scritto e scrivono critici illustri e pittori insigni ed io non voglio ripetere quanto essi continuano a scoprire nel sempre nuovo e sempre coerente lavoro dell’artista: a me piace ancora una volta riconoscere ed ammirare con affetto il suo sforzo di cui fui testimone nello studio in Salita del Grillo, sulla piccola collina dell’Angelicum, a cavallo dei Fori e del Quirinale, ed ora in Via del Vantaggio, nel suo nuovo centro di lavoro dalle enormi pareti, in un enorme spazio che annienterebbe chiunque non avesse l’ardore ed il suo respiro. Una fucina di pensieri e di programmi, una volontà produttiva e riproduttiva eccezionale, a due passi da Piazza del Popolo e dal Lungotevere dove il fascino di Roma è sfida continua e silenziosa per i nomadi del vero.

Ernesto Ugo Gramazio

(in Celiberti, catalogo della mostra, Genova, Galleria Rotta, 25 marzo-5 aprile 1964)

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